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Diritto all’Oblio: interessante ultima pronuncia della Cassazione

Diritto all’Oblio: interessante ultima pronuncia della Cassazione

By miriamp

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Il diritto all’oblio del singolo non è sempre l’unica variabile da tenere in considerazione durante un processo: l’inesatta indicazione dei contenuti da rimuovere o l’ancora attuale interesse pubblico nell’avere accesso alle informazioni possono essere ad esempio due dei motivi per cui, spesso, il diritto all’oblio non è sempre riconosciuto e non sono quindi approvate le richieste di rimozione contenuti da parte di utenti. È questo il caso di B.R., il quale ha agito in giudizio contro Google Inc. richiedendo la rimozione di contenuti lesivi alla sua reputazione ed un risarcimento da parte della stessa. Ma è possibile avanzare a Google una richiesta di rimozione contenuti senza specificare gli URL che si intendono eliminare dalla pagina di risultati? E come valutare il giusto equilibrio tra diritto all’oblio, diritto di cronaca e diritto all’informazione? Vediamo insieme più nel dettaglio questo approfondimento sul diritto all’oblio e sull’interessante ultima pronuncia della Cassazione.

La causa iniziale e la decisione del Tribunale di Spoleto

Il tutto era iniziato con la richiesta da parte di B.R. di esercitare il suo diritto all’oblio per tutti i risultati che apparivano sulla ricerca Google in risposta alla digitazione del suo nome come chiave di ricerca; inoltre, egli richiedeva un risarcimento danni da parte di Google Inc. Egli riteneva infatti che tali risultati contenevano articoli giornalistici relativi ad una vicenda di cronaca ormai passata e quindi tali risultati erano ormai inadeguati ed eccessivi in relazione ai fini per cui erano stati inizialmente coinvolti. Nel caso di deindicizzazione del proprio nome dal motore di ricerca, l’interessato sperava che la sua reputazione non venisse più intaccata da tali vicende. In risposta, Google rifiuta la richiesta di risarcimento e non solo: non rimuove nemmeno i risultati di ricerca in quanto la controparte non aveva indicato gli specifici URL dei contenuti che si intendevano rimuovere, indispensabili per la presa in analisi delle richieste di deindicizzazione. Il 14 dicembre 2016, quindi, il Tribunale di Spoleto aveva respinto la richiesta di risarcimento danni di B.R., ma aveva invece ritenuto lecita la richiesta di deindicizzazione, specificando come tali informazioni non costituivano più un interesse pubblico, dato che l’interessato non ricopriva alcun ruolo pubblico ed erano passati numerosi anni dalla vicenda. Il Tribunale ha quindi ordinato a Google di rimuovere tali risultati, il quale ha proposto però il ricorso in cassazione.

Il ricorso in cassazione: l’assenza di URL e il diritto all’informazione

Il ricorso in cassazione da parte di Google Inc. è stato richiesto principalmente per tre motivi: il primo risiede nel fatto che Google, in quanto internet service provider, non è in alcun modo tenuto ad effettuare un’attività di monitoraggio costante e attiva di tutti i contenuti indicizzati nel suo motore di ricerca, se non tramite l’indicazione specifica di URL lesivi al diritto individuale di un utente. Gli URL sono infatti il solo modo per designare univocamente l’indirizzo di una risorsa sulla rete. Inoltre, non è in alcun modo responsabile per i dati che egli memorizza su richiesta degli inserzionisti, salvo che venendo a conoscenza della natura illecita di tali contenuti, non li rimuova o deindicizzi quanto prima. Come seconda motivazione, la ricorrente lamenta l’estrema genericità dell’inibitoria disposta dal Tribunale, collegata all’assenza di specificità della domanda introduttiva di B.R. L’insufficiente determinatezza della domanda ha reso quindi non idonea la richiesta di deindicizzazione, tanto quanto non è idonea l’inibitoria disposta dal Tribunale. Come terza motivazione, infine, la Corte di Giustizia ha ricordato come l’equilibrio tra diritto all’informazione e diritto alla riservatezza del singolo sia sempre un po’ più sbilanciati verso quest’ultimo, in particolar modo quando le notizie in questione si riferiscono, nel caso di un processo, ad una fase precedente del procedimento giudiziario considerato e quindi non più valida al momento. La mancata individuazione specifica delle informazioni, quindi, non solo provoca i problemi di cui sopra, ma non permette nemmeno di stabilire a quale fase della vicenda giudiziaria corrispondono tali informazioni e quindi, in caso, a stabilire con esattezza se siano aggiornate o meno e quindi adeguate o meno a permanere online, a disposizione del grande pubblico. In conclusione, la Cassazione ha quindi accolto il ricorso di Google Inc, e ha riconosciuto l’incompatibilità dell’imposizione del Tribunale Umbro.

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